lunedì 17 giugno 2013




La Chiesa Madre di Castelluccio Inferiore è dedicata a San Nicola di Mira, il cui culto proveniente dall’Oriente,  e sviluppatosi  in particolare nell’Italia Meridionale, era molto consolidato nei paesi della Valle del Mercure e del Lagonegrese. Non è nota l’epoca precisa delle sua fondazione, ma si intuisce che risalga al Medio Evo e presumibilmente intorno alla metà del XIII sec. L’Arcieri scrive che nell’oratorio adiacente la sacrestia si rilevava l’anno 1286, ma di questa testimonianza non vi è più traccia. Tuttavia la sua struttura originaria conferma tale affermazione e il suddetto oratorio ha la volta a botte “affrescata con motivi classicistici”, databile al XIV sec. La chiesa era inizialmente sottoposta alla giurisdizione delle chiese parrocchiali di Rotonda e di Laino Borgo, perchè più antiche e gerarchicamente più importanti. L’informazione più remota si ha dal Registro Vaticano per la Calabria (Russo – 1/148): - ” 24 febbraio 1324, il presbitero Nicolao de Castelluccio paga la decima a Rotonda in tarì due”. Altra notizia molto antica risale al 1547, quando, con il testamento di Stefano Di Mare, fu istituita la prima fondazione benefica dei monti di maritaggio, per le ragazze povere, che stabiliva un lascito di cento ducati alla Congregazione del Santissimo Sacramento. In seguito all’incremento della popolazione, ebbe un primo ampliamento nei secc. XV e XVI, infatti nel primitivo pavimento si leggeva un tempo la data 1575, quindi l’anno in cui si iniziarono i lavori. Un’ ulteriore e definitiva estensione la interessò verso a metà del Seicento, in cui assunse l’assetto e le proporzioni attuali. Oggi è un vasto edificio sacro a croce latina ed a tre navate. Alla scarna e lineare decorazione originaria, si sovrappose una ricca ornamentazione in stucchi, in stile barocco. L’ abbellimento interno, iniziato nella seconda metà del sec.XVII, si protrasse poi per tutto il secolo seguente, ovviamente in modo non sempre unitario e in relazione al gusto del momento, tuttavia le varie fasi decorative si fondono armonicamente in tutto l’ambiente.

Maestri decoratori napoletani, esperti in quest’ arte “minore”, lasciavano progetti e disegni ad abili maestranze locali rimaste ignote, che eseguivano i lavori. 
Varcata la soglia, ci si introduce nella bussola della controporta, sul cui soffitto ligneo vi sono i dipinti eseguiti dal pittore Angelo Galtieri da Mormanno nel 1735: “San Michele Arcangelo”, “L’Annunciazione della Vergine” e “La Sacra Famiglia”, delimitati da cornici polilobate, circondate da ornamenti a motivi vegetali. Sopra la bussola è la cantoria (nei libri dei pagamenti viene chiamata “soprapopulo”, perché in quella parte della chiesa si disponeva la gente comune, il popolo) con l’organo (purtroppo ormai monco per le spoliazioni subite), in legno intagliato e dorato, del 1779. La navata centrale, oltre alla decorazione in stucchi, eseguita come si è detto in più riprese, presenta il meraviglioso ciclo di affreschi, realizzato dal già ricordato Angelo Galtieri, dal 1731 al 1737, come confermato dall’autore stesso sui dipinti e come si deduce dai registri dei pagamenti. Nell’ordine superiore, tra le finestre, sono illustrati gli episodi più salienti dell’Antico Testamento, di cui si ricordano: “Mosè salvato dalle acque” - “la guarigione di Tobia” - “ Abramo, Sara e i tre Angeli” - “Ia cacciata di Eliodoro” – “Il sacrificio di Isacco” - “Giuseppe in Egitto” – “Il trasporto dell’Arca Santa”- “David e Golia”. Chiudono il ciclo le immagini dei santi Pietro e Paolo, ai lati dell’arco presbiteriale.

Nell’ordine inferiore, nei pennacchi degli archi della navata, i soggetti degli affreschi riguardano il Nuovo Testamento, quindi: “La Natività”, “L’adorazione dei Magi”, “La fuga in Egitto”, “La strage degli innocenti”, “Cristo tra i dottori”, “L’adultera”. Purtroppo non c’è rispondenza tra le pareti e la volta, che fu abbattuta negli anni Cinquanta del Novecento, perché ritenuta fatiscente, causando la perdita, oltre che degli stucchi, anche dei tre grandi affreschi ovali, che Genesio Galtieri, forse figlio di Angelo (o comunque suo congiunto), dipinse nel 1792. I soggetti erano sempre riferiti all’Antico Testamento: “La Regina Esther al cospetto di Assuero”, “Giuditta e l’assedio di Betulia”  (ove un cartiglio riportava l’iscrizione: ”Tu gloria Jerusalem, tu letitia Israel, tu honorificentia populi nostri”) e “La fuga di Giacobbe raggiunto da Labano” .

Di questi tre grandi affreschi, solo quello centrale (“Giuditta all’assedio di Betulia”) pare si fosse salvato. Infatti quando si eseguirono i lavori, fu incaricato il pittore di Lauria, Lanziani, il quale non si sa se lo replicò su carta, che fu poi incollata al soffitto, o se addirittura eseguì la tecnica dello “strappo” (ma questo è improbabile). Dopo il recente restauro della chiesa, tale opera non è più stata rimessa al suo posto.



L’altare maggiore è un commesso marmoreo di grande effetto e di grande pregio, la cui realizzazione abbraccia un lungo periodo di tempo che va dal 1740 fino al 1766. L’altare originario era probabilmente in stucco, in seguito si pensò di sostituirlo con un lavoro in marmo, e trattandosi di un’opera impegnativa e complessa, si eseguirono i lavori un po’ per volta, all’inizio per mano di maestranze locali, poi subentrò il maestro “marmoraro” napoletano Arcangelo Staffetta, che si avvalse anche di collaboratori sul posto.

Il marmo veniva lavorato in parte a Castelluccio Superiore (nei libri dei pagamenti si nominano mastro Stefano D’Arleo e mastro Antonio il petraiolo), centro più vicino alla cava di marmo di “alabastro cotogno”, che era stata scoperta nel 1744 in località “Difesa”, ed in parte ad Aieta dai noti scalpellini locali. Il marmo utilizzato nella realizzazione dell’altare maggiore è prevalentemente il nostro “alabastro cotogno”, commesso al diaspro di Sicilia, al giallo di Siena, al bianco di Carrara, al verde antico e al nero di Calabria.



“Il paliotto è centrato da un disco di marmo verde antico, con croce raggiata, ai lati vòlute commesse in alabastro cotogno e diaspro di Sicilia, agli angoli quattro fiori in alabastro con al centro un bottone di marmo nero. Ai lati sono presenti due modiglioni di notevole fattura, disposti obliquamente; presentano, sotto la vòluta, un bassorilievo con una testa di putto che regge tra le labbra un cordone con alcuni frutti. I margini laterali dell’altare sono ribaditi da gradevoli vòlute commesse in giallo di Siena. …….. un esempio datato circa al 1731, è l’altare della cappella della Bruna a Matera, simile al ‘nostro’ altare per le vòlute laterali ‘a cartocci’ e per le impostazioni dei modiglioni, sempre se questi, a Castelluccio, non sono stati modificati dai restauri dell’altare."



L’altare, come già detto, ha subito qualche modifica dovuta ad interventi di riparazioni, o ‘restauri’, nell’Ottocento; la sua particolarità è che ai lati sono presenti vòlute a “cartocci”, e non i più frequenti putti capialtare.
L’opera costò la considerevole cifra totale di 200 ducati, ma nell’ottobre del 1775 un fulmine colpì la zona del coro provocandovi danni, e quindi l’ altare  fu riparato, sempre dallo Staffetta, nell’anno seguente.

Nel frattempo si cominciò a progettare la balaustra, che delimitava l’area presbiteriale. Per parlare della balaustra (scolpita nel nostro pregiato marmo locale che Gaetano Arcieri definiva “nostro marmo cittadino” e “marmorea pietra melata, che riceve la politura e riesce di bell’effetto”), non si sa se è più corretto usare il presente o il passato, perché anche se questa c’è ancora, è stata rimossa dal luogo originario e smembrata, per essere adattata altrove, in modo del tutto improprio. Quello della balaustra fu l’ultimo lavoro impegnativo, curato e portato a termine dalla Confraternita del SS. Sacramento. L’ opera, là dove si trovava, era il compimento della decorazione barocca dell’edificio sacro, perchè inserita in un contesto storico-artistico e filologico inscindibile, in cui ogni elemento, decorativo o di culto, “dialogava” con l’altro. L’insieme era di grande fascino e armonia ed anche se queste opere (costose ed impegnative) furono ideate e portate a termine dai nobili e dal clero, alla loro realizzazione contribuì tutto il popolo. L’ importante lavoro del Settecento Napoletano costò l’ingente cifra di 260 ducati.
Ma nessuno sembra aver raccolto l’insegnamento dei notabili castelluccesi  ‘illuminati’, ormai lontani nel tempo.

“La balaustra è formata da plinti divisori di grande robustezza che presentano al centro un riquadro inciso e ribadito ai lati da un motivo scolpito a gigli cadenti. Il traforo è di grande eleganza, formato da vòlute marmoree che inquadrano uno scudo sormontato da elementi ‘rocaille’ a conchiglia. In alto il passamano è di grande rigore architettonico così come lo zoccolo. L’opera è di disegno molto originale e si inserisce nella corrente creata da Domenico Antonio Vaccaro, che introduce nella tipologia marmi scolpiti in modo lezioso e riccioli ‘rocaille’."

Il disegno e il cartone vennero realizzati da Arcangelo Staffetta nel 1762, ma anche questo lavoro si protrasse per molto tempo e abbiamo notizia che nel 1783 fu saldato il pagamento di una parte dei lavori, sempre allo Staffetta. Precisamente si pagò un acconto di 82 ducati e 50 carlini. Questa cifra comprendeva anche le donazioni del Marchese Don Vincenzo Antonio Pescara e di suo figlio Carlo Francesco, e del Procuratore della Cappella del SS. Sacramento e committente dell’opera, Don Gaetano Taranto. In seguito, per motivi ignoti, nel compimento del lavoro e nella posa in opera della balaustra, avvenuta nel 1787, subentrò Gaetano Varriale, altro maestro “marmoraro”, anch’egli forse proveniente da Napoli.

“Il marmo cotognino è di origine calcarea e viene detto anche alabastro orientale. Si è originato per deposito chimico da acque ricche di bicarbonato di calcio. I colori sono disposti a zone, a bande o radicalmente; variano in modo sensibile e si ripetono. Tra i colori predominano il giallo, il bianco e il bruno. Ci sono giacimenti di marmi di questo tipo nel Bergamasco, in Valtellina, nel Cuneese, in Toscana (Volterra – alabastro bianco) e nell’Africa del Nord. Tra i secoli quattordicesimo e sedicesimo, venne lavorato il marmo bianco alabastrino-gessoso, in Inghilterra nelle cave Chellaston e in Germania."

Altro notevole manufatto in marmo, anche questo realizzato dallo Staffetta, nel 1764, è l’acquasantiera, situata nel primo pilastro a destra.

“Essa è formata da alcune vòlute che fanno da cornice a un bassorilievo con San Nicola benedicente, la cui cimasa è formata da una conchiglia, il settecentesco motivo “rocaille”. Nel bassorilievo ci sono gli inserti in diaspro di Sicilia e in giallo di Siena. Il bacino è formato da una vasca a forma di conchiglia con in basso un sostegno formato da vòlute”.

Nelle spaziose navate laterali, o navatelle, sono disposti tre altari per ogni lato. A destra, il primo è dedicato a San Vito e ai Santi Pietro e Paolo, con tela del Settecento; il secondo alla Madonna del Carmine, S. Michele e Santa Lucia, oggi vi è montata una tela datata alla seconda metà dell’Ottocento. Era di patronato della famiglia Arcieri, succeduta alla famiglia Pastore. Il terzo altare, dedicato a Santo Stefano, era di patronato della famiglia Salerno, ma nell’Ottocento fu ristrutturato ed intitolato a San Francesco di Paola, con statua in legno. A sinistra, il primo è intitolato alla Madonna del Rosario, con bella tela firmata da Antonio Ferri e datata 1747. Apparteneva alla famiglia Gioia, con atto del 2 agosto 1733. Godeva di una congregazione con lo stendardo bianco, che si chiamava “Congregazione del Popolo”. Il secondo è dedicato all’Immacolata Concezione, con altra tela del Settecento, che raffigura la Vergine attorniata da Sante Martiri. Il terzo è dedicato alla SS. Trinità, con tela firmata da Giuseppe Sassone e datata 1757. Alla base si distingue lo stemma dei Marchesi Carlo Francesco e Barbara. Anche questo altare era di patronato della famiglia Arcieri per fondazione del 1618, per eredità da Egidio Milione ed Angiola Gioia. I due altari in fondo alle navate laterali, erano, a destra dedicato alla Visitazione della Vergine, a sinistra a Santa Caterina d’Alessandria. Quest’ ultimo era di patronato della famiglia Arcieri come da bolla del 10 aprile 1535. All’origine vi era una bellissima tela del Settecento, oggi disposta altrove, perché l’altare ha subito radicali modifiche nell’Ottocento ed è stato dedicato all’Immacolata Concezione, con statua in legno. Anche l’altare della Visitazione è stato cambiato ed è stato destinato alla Vergine Addolorata, ov’ è la statua oggetto di grande venerazione per il miracolo avvenuto il 1° giugno 1896, che ogni anno si ricorda con solenni celebrazioni. Come abbiamo visto gli altari menzionati erano tutti di patronato delle famiglie patrizie castelluccesi, che vi avevano “jus sepulturae”.

Nei bracci delle navate laterali vi sono le due grandi cappelle con cupole. Quella a destra era intitolata a San Carlo Borromeo, di patronato della famiglia marchesale, la cui fondazione risale al 1620. Sull’altare era l’ interessante scultura in legno, sicuramente del Seicento, del San Carlo giovinetto. Questa statua, dopo anni di oblio, è stata fortuitamente ritrovata in uno scantinato, ove era finita tra i rifiuti ed infine restaurata. Nel cappellone di San Carlo si trovava anche l’imponente ed espressivo crocifisso del Sei-Settecento, anche questo restaurato di recente, un’altra grande statua di San Nicola ed una di San Giuseppe, entrambe custodite in teche. La cappella a sinistra è denominata del Purgatorio o del Redentore, dedicata al Cristo Risorto. Nella nicchia è la bella scultura in legno, acquistata a Napoli, del 1769; ai lati vi sono due grandi tele illustranti, una “L’Ultima Cena” e l’altra “La Sacra Lavanda”, di Giulio dell’Oca, del 1687. Alle pareti laterali della cappella, sotto le tele, vi sono montati gli stalli in legno di noce di un piccolo coro, probabilmente del Seicento, che confermano come la cappella fosse luogo di riunione della Confraternita del SS. Sacramento, che gestiva i beni della chiesa.

Dietro l’altare maggiore è l’abside, con il coro in legno di noce lavorato a intaglio, contemporaneo agli stucchi. Inserite nella ricca decorazione vi sono ai lati due grandi tele, di cui non è noto l’autore, dipinte tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento: “Leone X che ferma Attila” e “La liberazione del fanciullo Deodato”. Della prima anche l’Arcieri osserva che l’autore si ispira al bassorilievo di Alessandro Algardi, nella Basilica di San Pietro a Roma, eseguito tra il 1646 e il 1653. Nella nicchia dell’abside, ai lati delle due tele, vi è un’altra pregevole scultura di San Nicola con il piccolo Deodato, dello stesso periodo. Sopra le due tele, là dove le decorazioni in stucco diventano ancora più ridondanti, circoscritti da ghirlande di fiori e frutti, vi sono i due busti dei committenti di tale lavoro terminato nel 1689 ed aperto al pubblico nel 1690. La tradizione vuole che si tratti del Marchese di Castelluccio e di sua moglie ed attraverso studi araldici è stato possibile definire l’esatta identità dei due personaggi.
Dal coro, attraverso la bella porta sempre in noce scolpito, si accede alla sacrestia. In questo vasto ambiente, vi sono, allineati lungo le pareti gli splendidi armadi intarsiati in legni pregiati, del 1775. In questo luogo erano custoditi i preziosi parati (Gaetano Arcieri: “Nulla diciamo delle magnifiche pianete, omerali, piviali etc”), di cui la chiesa era ed è copiosamente provvista, le suppellettili in argento, i registri parrocchiali, le bolle e le pergamene antiche.

“Nel 1773 iniziarono i lavori per la sacrestia: gli alberi vennero tagliati a ‘Ponciuto’, una contrada del paese: il materiale era proprietà della cappella (SS.Sacramento). Due falegnami, Pietro Campanella ed Andrea Taranto, prepararono le tavole in legno di noce. Altre tavole di noce furono comprate da mastro Raffaele Di Minco, l’ 8 maggio del 1773. Gli stanti , l’armatura, erano fatti di legno di castagno preso da un’altra contrada, la ‘Mancosa’. Dopo questa parte di falegnameria in cui lavorarono maestranze del posto, si passò ai lavori per gli ebanisti; la convenzione venne stipulata con Antonio Grezza e Luigi Lene (o Lecce) di Latronico, che ottennero una caparra di 6 ducati………… E’ da rilevare che gli stipi della sacrestia si rifanno a motivi rintracciabili nelle province meridionali, come nella coeva sacrestia della Maddalena di Morano (1756-1757), anche se questa è più complessa e più ricca di tarsie rispetto a quella di Castelluccio.”

Lo studio della storica dell’arte Angela Convenuto sui paramenti sacri è esauriente e completo:
“I paramenti sacri rinvenuti nelle chiese di Castelluccio provenivano dai laboratori di Napoli e della provincia, che dal Seicento sino all’Ottocento erano molto attivi e attestavano una valida struttura corporativa. Ricordiamo alcuni esempi emblematici, tra cui la pianeta  in seta bianca ricamata in fili d’oro e serici policromi, di gusto tardo-barocco: nella parte anteriore fogliami, fiori e due pappagalli tra vòlute e foglie dorate; sul retro, analoghi elementi decorativi con uccelli inquadrano la targa raffigurante ‘l’apparizione delle Vergine a San Bruno’, un gallone in oro con motivi a zig-zag la contorna. Probabilmente eseguita tra gli ultimi decenni del ‘600 e i primi anni del ‘700, si inserisce nell’ambito della vasta produzione delle botteghe napoletane che desumevano i temi ornamentali dalle decorazioni marmoree o dai paliotti in scagliola. ……….motivi decorativi fantastici e orientaleggianti rendono problematica la provenienza della tunicella in seta su fondo rosso, databile alla prima metà del ‘700………....... un altro esemplare ricamato,  costituito da una pianeta che riporta ricami in argento e fili di seta policromi, su un fondo verde ormai consunto. Il manufatto,  di incerta provenienza, eseguito durante il corso del XVIII secolo, riporta elementi decorativi molto stilizzati e fitti simili a quelli creati su alcuni tappeti orientali; un riquadro mistilineo a fili d’argento racchiude un ramo, da cui si dipartono fiori e foglie.”

Come si è già accennato, la chiesa è fornita di preziosa argenteria, tra le altre suppellettili, numerosi sono i calici ed il più antico è datato 1640. L’Arcieri ci informa che questo notevole patrimonio, durante l’occupazione militare francese del 1806/1807, grazie alla sollecitudine di un parroco, fu accortamente nascosto dentro una sepoltura della chiesa e così si salvò dal saccheggio.

”La chiesa oltracciò è provveduta di un prezioso tesoro di argenti e di suppellettili sacre. Merita particolar menzione una mirabile sfera di argento riccamente cesellata, del peso di rotoli 5, e dell’altezza di palmi 3, a contorni di oro, sostenuta da una statuetta argentea rappresentante S. Chiara che posa sopra un globo indorato……….Ha un prezioso ostensorio con reliquie di San Niccolò………La croce nelle processioni è pure di argento, del peso di circa rot.10, vagamente cesellata, con S.Nicola in rilievo alla base. Distinguonsi per pregio tre argentei calici, oltre di altri sette con la sola coppa di tal metallo. Una grande pila con l’aspersorio, la pace col piattino, e quest’ultimo segna l’emblema della famiglia Marchesale, la quale fu larga di doni alla Chiesa. Di argento ancora, ed indorati nel didentro sono due ciborii; di argento due vasettini per l’olio Santo, e di argento in ultimo un bell’incensiere con la navetta, le carte di gloria, e una grande lampada. Rimarchevole altresì per bellezza è un messale vellutato con ricchi bordi e figure di argento.”

La lampada di cui parla l’Arcieri è un capolavoro di argenteria napoletana del tardo Seicento, che ancora oggi si può ammirare nella chiesa; un esemplare come questo è custodito nel Tesoro di San Gennaro, nel Duomo di Napoli. Il manufatto riporta nelle decorazioni, incise: una Madonna con Bambino, lo stemma di Castelluccio formato dalle due torri, lo stemma dei feudatari, e la dedica di Don Andrea Pescara, con l’anno 1693.

-“La produzione copiosa esistente nella regione lucana proviene, ad eccezione di alcuni casi, dalle botteghe di Napoli; in seguito all’ emanazione delle Prammatiche da parte del vicerè spagnolo, alla fine del Seicento, la lavorazione dell’argento era autorizzata a Napoli e nelle capitali delle province. Per poter esercitare un controllo sulle maestranze argentarie, ogni prodotto doveva recare il bollo della Piazza o della Strada degli Orefici, costituito dalla sigla NAP con corona e millesimo espresso a tre cifre, il bollo del Console e le sigle relative al nome e cognome dell’argentiere; tali disposizioni furono attuate fino al 1808……. Di particolare rilievo è la croce processionale della chiesa di S. Nicola a Castelluccio Inferiore, datata 1707, purtroppo trafugata. Il pezzo recava punzoni camerali, NP coronato e il bollo consolare L.D.F.C. che si riferiva al nome di Leonardo De Franco, console dal 1706 al 1707. Databile alla metà dell’Ottocento è l’ostensorio a raggiera con il nodo costituito dalla figura della Fede, fusa e cesellata abilmente nel panneggio”.

Di grande interesse è il fonte battesimale “in pietra calcarea, di gusto cinquecentesco con il leoncino stiloforo ispirato a modelli gotici”. Oggi è possibile ammirarlo integralmente, sia per la sua attuale collocazione che per il fatto che è stato liberato del cappello ligneo, di epoca recente, che sostituiva però quello intagliato e dorato del Settecento, andato perduto; entrambi ne ostruivano la sua ideale bellezza classica. Il primo cappello ligneo del fonte battesimale era un’opera di pregio, dorata in oro zecchino, eseguita nel 1739 da mastro Bartolo Rizzo di Rotonda e indorato l’anno seguente da Giuseppe De Biase. Il lavoro a intaglio era simile a quello del pulpito, che si trovava nell’ultimo pilastro a destra, nella navata centrale, ma questo era solo dipinto a tempera. Il pulpito si presume sia stato eseguito dagli stessi autori del cappello ligneo del fonte e nello stesso periodo, ma anche di questo si sono perse le tracce dopo il recente restauro.
Gli altari sono ornati con preziosi candelabri, ma i più pregiati sono quelli dell’altare maggiore, indorati in oro zecchino nel 1754. Tra gli altri oggetti di culto, nelle navate laterali vi erano due statue, a sinistra una Madonna con Bambino in una teca in legno intagliato e dorato, a destra una statua della Madonna del Carmine, datata 1894 e firmata dal napoletano Vincenzo Reccio “…….che modella con un plasticismo delicato, presente in altre figure eseguite a Napoli”.

La facciata, sicuramente realizzata alla fine dell’Ottocento/inizi del Novecento, era un “pasticcio” in stile umbertino, che l’attuale restauro ha alleggerito togliendo alcuni orpelli che la rendevano poco armoniosa, e riportando alla luce l’antico portale in pietra del ‘700 che era stato impropriamente ricoperto da intonaco, sovrastato da un arco in tufo e da un lucernario, un tempo murato. Dello stesso periodo, come attesta l’iscrizione “1891” scolpita a numeri romani, è il sagrato, con i gradini in pietra, opportunamente ricostruito durante il restauro della chiesa.

“Dalla seconda metà del XVII secolo alla fine del XVIII, nel borgo di Castelluccio emerse una realtà culturale meno provinciale:la società, sebbene immutata nelle sue strutture, dialogava in termini più disinvolti con Roma e con Napoli, realizzando una sua autonoma fioritura. Il fenomeno del barocco investì le architetture religiose, chiese, conventi, confraternite, cappelle gentilizie; il nuovo linguaggio si formulava e si ambientava sulle radicate convenzioni classiciste, privo di ricerca tipologica ed unità spaziale architettonica, mediante l’adozione di arredi e decorazioni in stucco. La provincia seguì il vasto programma realizzato a Napoli, in cui le espressioni artistiche barocche si affermavano più che per l’imponenza delle masse, per le ‘preziosità degli ornati, raggiungendo uno sfrenato virtuosismo decorativo ed una festosa teatralità’ che indebolivano ‘il chiaroscuro astratto delle membrature architettoniche’. Nell’architettura religiosa di Castelluccio, il repertorio degli ornati disperdeva il perdurante manierismo nel ‘pittoricismo’ barocco: testimonianze emblematiche di questa produzione sono la chiesa matrice di S. Nicola, la chiesa conventuale di S. Antonio (Santa Maria delle Grazie), a Castelluccio Inferiore,  e la chiesa di Santa Margherita a Castelluccio Superiore. ………… Il complesso decorativo della chiesa di San Nicola, realizzato in stucco, rappresenta uno degli aspetti del progetto di trasformazione e di restauro eseguito dalla seconda metà del ‘600 sino alla prima metà del ‘700. Gli stucchi diventavano elementi di ‘integrazione’ dell’architettura ed insieme elementi ‘autonomi’ con cui si realizzavano effetti scenografici. La decorazione plastica che ricopre interamente l’abside, le cappelle del transetto e gli altari delle navate laterali si ispira alle realizzazioni coeve napoletane, di cui permangono conoscenze molto lacunose, in seguito ai frequenti rimaneggiamenti, dovuti alla fragilità della materia; pertanto, i riflessi provinciali che ci pervengono sono emblematici per il recupero dei linguaggi espressivi seicenteschi elaborati nella capitale partenopea. Nel 1655 (o 1688, non si riesce a decifrare bene) la famiglia marchesale Pescara De Diano commissionò gli stucchi dell’altare dedicato a S. Carlo Borromeo, nel cappellone a destra – come si evince dalla data posta sul primo gradino della cona e dagli stemmi coronati ai lati del paliotto – eseguiti da stuccatori provinciali al corrente dei fatti napoletani. Il cappellone denominato del Purgatorio, situato a sinistra, analogo nell’impostazione strutturale a quello del San Carlo Borromeo, riporta una decorazione con motivi di ascendenza fanzaghiana. Un apparato decorativo puntuale si registra non solo sulla cona dell’altare con timpano curvo spezzato, ma anche nell’intradosso dell’arco d’ingresso; le pareti laterali sono arricchite da due cornici con volute, foglie, frutti e ghirlande che inquadrano dipinti. Un virtuosismo ornamentale sfrenato si manifesta sulle pareti dell’abside, in cui gli ornati si impongono sull’architettura: l’intervento fastoso rispondeva alle esigenze di invocazione e glorificazione del popolo. Nello scudo posto sulla parete di fondo si legge:ECCE / SACERDOS MAGNUS / QUI / IN DIEBUS SUIS / PLACUIT DEO / MDCXC; l’artefice realizzava, pertanto, negli ultimi anni del secolo le cornici ampiamente ornate da volute fogliacee, festoni, motivi floreali, angeli reggenti scudi con ghirlande; l’ornamentazione invade i peducci della cupola con le raffigurazioni dei quattro Evangelisti e ancora le finestre del timpano con cornici, ricche di elementi decorativi. I motivi barocchi derivanti dalle elaborazioni fanzaghiane, mediate dalla cultura diffusa da Lorenzo Vaccaro – come avanza Renato Ruotolo – sono da attribuire ad un artista giunto da Napoli. La sua matrice culturale, a mio avviso, assimilava quegli stilemi decorativi tipici della produzione marmorea di Dionisio Lazzari, vicino al pittoricismo del Fanzago, e che adottava motivi floreali ripetuti fino a creare un’ ‘ornamentazione astratta’; come pure, le scelte compositive dell’intradosso dell’arco trionfale con riquadri di anfore e fiori, ritengo siano collegabili a moduli derivanti dalla cultura di Dionisio Lazzari – Francesco Valentini – Simone Tacca, che arredavano con marmi intarsiati la cappella Firrao Santagata nella chiesa di San Paolo Maggiore a Napoli. Certamente importante per l’evoluzione dell’artista è stata la realizzazione degli stucchi della Sacrestia Nuova nella Cappella del Tesoro di San Gennaro a Napoli, realizzati da Andrea Falcone e Giovan Battista D’Adamo. Inoltre, suppongo che l’autore non si sia sottratto all’ispirazione dei vasti programmi dell’ambiente romano recuperati in parte da Francesco Grimaldi nella chiesa dei SS. Apostoli a Napoli, adorna di fregi in stucco dorato. Degni di nota sono gli altari delle navate laterali, realizzati nella prima metà del ‘700; a destra, il secondo e il terzo altare, denotano nella cona uno schema ancora seicentesco, arricchito dal gusto rococò dei paliotti, elaborati secondo la tipologia ideata da Domenico Antonio Vaccaro nel secondo e terzo decennio del XVII secolo. La fisionomia dell’architettura e le stesse strutture sono trasformate in ornamento dalla fantasia acuta dei maestri stuccatori locali sulle orme della tradizione napoletana, determinata da Domenico Antonio Vaccaro, Ferdinando Sanfelice, Filippo Raguzzini”.


GLOSSARIO

Altare a cona: dal termine ancona, tavola dipinta posta sull’altare, il termine indica anche la nicchia, o la cornice in cui è posta tale tavola. Si intende quindi un modello di altare che include l’ancòna. Deriva dal greco bizantino eikòna ‘immagine’; come già si è detto: tavola posta sull’altare, dipinta o scolpita, spesso a più scomparti, in legno, marmo o terracotta.  La definizione è spesso estesa a nicchia o cornice in cui è posta tale tavola.

Bussola della controporta: seconda porta di ingresso della chiesa per riparo dal freddo e dal vento.

Cantorìa: tribuna sopraelevata, in cui trovano posto i cantori. Successivamente, nel ‘500, venne sistemata sopra l’ingresso, insieme con l’organo. In antico poteva trovarsi nell’abside o nel transetto, per questo motivo veniva  chiamato ‘coro’, o in altro punto della chiesa.

Cappellone: ambiente chiuso da una grande cupola, adiacente a un altro edificio sacro, dove è posta un’ edicola con altare.

Cartagloria: ciascuna delle tabelle poste al centro e ai due lati dell’altare, con sopra scritti i testi della liturgia.

Cartoccio: motivo ornamentale caratteristico dell’arte barocca, consistente in una sorta di cartella dai lembi arrotolati in fantasiose vòlute.

Cimasa: complesso di modanature che serve da coronamento a un elemento architettonico. Cornice terminale di un mobile.

Commesso: dal latino committere = congiungere: tipo di mosaico a sezioni realizzato con marmi, pietre dure o tenere, così denominato perché i singoli elementi sono talmente accostati tra loro da non far vedere le sconnessure. Si dice che i pezzi sono ‘commessi’, ossia uniti.

Coro: nelle chiese è lo spazio separato da recinzioni e provvisto di stalli, riservati ai cantori e situato nella parte terminale della navata centrale, dopo il presbiterio, nell’abside. Indica anche l’insieme degli stalli per i cantori.

Girale: motivo ornamentale composto da una foglia d’acanto, di vite o altro in forma di vòluta e con al centro, solitamente, un fiore.

Mecca: vernice trasparente di tonalità aurea che si stende per simulare la doratura.

Membratura: modanatura o complesso di modanature che costituiscono, specialmente se unite ad altri elementi architettonici, una parte ben determinata della costruzione.

Modanatura: elemento fondamentale della decorazione di un’opera architettonica, costituito da una superficie generata da una traslazione o dalla rotazione di un profilo o sagoma, formato da segmenti di retta o archi di curva, che la caratterizza. Elemento sagomato di un mobile, di una cornice, di uno specchio.

Modiglione: elemento di sostegno reale o apparente, quindi decorativo, della mensa dell’altare, posto ai lati del paliotto, di caratteristica forma ad ‘S’.

Paliotto: parte anteriore dell’altare, in stoffa, legno o marmo o altri materiali preziosi, in genere decorata a rilievo o a intarsio. Viene chiamata anche dossale.

Peduccio: elemento sporgente, a forma di mensola o di capitello (capitello pensile), che sostiene l’imposta di un arco o di una volta.

Platea: libro con l’elenco dei possedimenti e dei movimenti economici di una parrocchia o di una congregazione.

Plinto: parte inferiore della base della colonna o del pilastro, costituito da una base quadrata o poligonale.

Polilobato: caratterizzato da più lobi. Il lobo è un elemento decorativo a forma di archetto rotondo, presente soprattutto nelle cornici.

Postergale: parte dell’altare superiore alla mensa, a cui il celebrante dava le spalle. E’ costituito da uno o più gradini; ai lati vi sono i putti-capialtare, o vòlute, o altri elementi decorativi.

Presbiterio: parte della chiesa, circostante l’altare maggiore, sopraelevata di alcuni gradini e recintata da balaustra, riservata al clero officiante.

Rocaille: termine francese che indica ‘pietrame’, o meglio opera a nicchi (nicchia o conchiglia) per ornamento di grotte artificiali etc. Il termine è derivato da roche ‘roccia’, usato come sinonimo per indicare il periodo rococo’, lo stile settecentesco di origine francese, caratterizzato da mobili e oggetti ornati in forma capricciosa, mossa da elementi decorativi quali foglie, vòlute, conchiglie, boccette, riccioli disposti asimmetricamente.

Scagliola: Impasto ottenuto con gesso della varietà salenite (cotto a bassa temperatura e polverizzato), colla e acqua. Mentre l’impasto è ancora morbido, si formano tavole nella cui superficie si possono tracciare disegni incavati, da riempire poi con lo stesso materiale variamente colorato. La superficie delle tavole, disseccata e indurita, può essere lucidata a specchio con opportuni accorgimenti.

Scialbo: dal latino tardo ‘exalbare’, imbiancare, intonacare. Strato di intonaco sovrapposto alle pareti, come sui singoli stucchi.

Specchiatura: riquadratura della parete, simile ad uno specchio, con funzioni decorative.

Succorpo: nelle chiese calabresi il termine indica la cripta.

Tamburo: parte cilindrica o prismatica della cupola, compresa fra gli elementi di base e la calotta, spesso provvista di finestre.

Transetto: navata trasversale della chiesa, larga e alta, di solito quanto la nave centrale.

Triglifo: decorazione del fregio, nell’ordine dorico, con tre scanalature verticali dette glifi, separate da superfici piane indicate come femori.

Vela: si dice a vela una volta semisferica che si innalza in un edificio a pianta quadrata. Indica uno spicchio della volta a crociera.

Vòluta: elemento decorativo curvilineo o a spirale, molto diffuso in pittura, scultura e architettura; sono tipiche le vòlute del capitello ionico.




DIZIONARIO DEI MARMI UTILIZZATI 

NELLDIOCESI DI CASSANO

Alabastro calareo
Termine che designa un materiale tenero con struttura fibrosa raggiata di colore giallognolo, traslucido, poco resistente alle azioni metereologiche. Viene usato esclusivamente per decorazioni interne. Si trova nel Bergamasco, nel Cuneese, in Toscana.

Alabastro bianco gessoso
E’ una varietà di gesso a struttura saccaroide, traslucido, di colore latteo, usato in sostituzione del marmo. E’ un materiale tenero facilmente lavorabile. Si trova in Egitto, in Grecia, in Germania e in Inghilterra. In Italia si produce in gran parte in Toscana (Volterra e Castellina).

Alabastri antichi
L’alabastro fiorito e alabastro di Palombara, provenivano da Ierapoli, dalla Frigia e dall’Asia Minore. L’ alabastro a pecorella proveniva da Orano in Algeria.

Alabastro egiziano o cotognino
E’ un materiale semitrasparente con venature biancogiallastre variamente disposte. Si trova in varie località dell’Egitto e nella Valle del Nilo.

Alabastro cotognino siciliano
Mostra una grande somiglianza con l’alabastro toscano delle province di Volterra e di Siena. Esiste una varietà di alabastro bianco venato di grigio-brunastro e un’altra di alabastro gessoso che è stato adoperato a Trapani durante il XVIII secolo. L’alabastro cotognino è in realtà l’alabastro calcareo dell’età pleistocenica dei monti di Palermo. Si tratta di un calcare concrezionato  con struttura a bande di differente colore, dal bianco al giallo e dal verde al marrone. La particolare ricchezza di impurità argilloso-ferruginose presenti nelle lamine sembra essere imputabile all’alternanza di periodi climatici umidi e secchi, che influenza i processi di dissoluzione, di trasporto e rideposizione delle soluzioni circolanti.  Esso è stato a lungo apprezzato per la sua compattezza, per la variegata colorazione e per la sua facilità di lavorazione, giacchè è possibile ricavarne lastre, colonne etc. Particolarmente pregiata è la varietà che veniva estratta dal monte Pellegrino, nelle adiacenze di Palermo. Si tratta di un alabastro semi-trasparente, dal colore bianco-giallastro simile a quello della buccia delle mele cotogne, venato di larghe macchie bianche. In passato, l’alabastro veniva saltuariamente cavato in altre località nei dintorni di Palermo, particolarmente apprezzate e conosciute erano le varietà dell’Acquasanta, di N’Serra, di Capo Zafferano, de Monti Sagana e di Belmonte Mezzagno.

Bianco di Carrara
Termine che designa i marmi bianchi di gran lunga più diffusi nell’antica Roma e in Italia. Questi in genere sono quelli delle Alpi Apuane, che prendono il nome dall’odierna Carrara (antica Luni). Furono quindi chiamati in antico lunensi e cominciarono ad essere conosciuti a Roma già nel I secolo a.C. Il marmo di Luni ha la grana fine e scarsamente trasparente ed è in generale facilmente distinguibile dagli altri marmi bianchi della Grecia o dell’Asia Minore.

Borolè di Francia
Il borolè è noto anche come barolè o brulè di Francia perché il suo nome è riportato in diverse forme nei documenti antichi provenienti da vari luoghi. Insieme con sbrizza di Francia costituisce una varietà di marmi rossi della ricca area estrattiva dei Pirenei. Il borolè di Francia è un calcare assai compatto a grana fine, caratterizzato da una calda tonalità rosso scuro e da plaghe di colore bianco-giallastro, con forma e dimensioni molto irregolari, costituite da calcite spatica.  La brizza di Francia è anch’essa un calcare compatto a grana fine, di colore rosso mattone e struttura nodulare, venato di fioriture bianco-giallastre di calcite. Le due pietre sono state largamente impiegate in Italia per le decorazioni seicentesche e settecentesche di interni chiesastici. In Francia è conosciuto come marble rouge royale.     

Diaspro di Sicilia
Particolarmente famose  sono le varietà di diaspro (a bande e radicellare o fiorito) di Giuliana o Bisacquino (Palermo).  A Santa Cristina Gela i diaspri mostrano una struttura radicellare o radicellare agatata   e possiedono una colorazione d’insieme rosso cupo e/o giallastra, talvolta con sfumature tendenti al verde. Nel territorio di Bisacquino, tra le argille paleogeniche in blocchi e ammassi anche di notevoli dimensioni, si ritrovano i famosi diaspri del feudo di Giancavallo e Santa Maria del Bosco. Questi hanno una struttura macchiata, pseudo brecciata o radicellare con venature bianche opache e un colore d’insieme dal rosso cupo al verde-giallastro. Le chiese barocche di Palermo sono decorate di diaspri di provenienza locale. Anche a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, l’altare maggiore e le pareti della cappella Paolina, o Borghese, sono decorate con varietà di diaspro di Giuliana.

Giallo di Siena
Si tratta di un calcare compatto a grana molto fine di età infraliassica, cavato in diversi punti della Montagnola Senese, nei comuni di Casola d’Elsa, Chiusino e Seciville. Le differenti tonalità di giallo dipendono dall’eterogenea distribuzione delle impurità limonitiche  della matrice. I gialli di Siena sono marmi pregiati, utilizzati sia in Italia che all’estero quasi esclusivamente per la decorazione d’interni; all’esterno la pietra non viene quasi mai impiegata perché la calda tonalità cromatica potrebbe scolorirsi.


Nero di Calabria
Viene definito più genericamente nero o ‘negro’, non se ne conosce la provenienza, deve avere avuto una diffusione e un’estrazione locale. Non si esclude che l’aggettivo di Calabria trovato in alcuni documenti, si riferisca al luogo di compravendita.  Potrebbe più logicamente trattarsi del nero del Belgio o di Fiandra.  Esso veniva impiegato per delimitare le campiture di colore nei commessi, o nei vari riquadri come linea di contorno.

Quarzite          
Roccia silicea formata in gran prevalenza da quarzo, biossido di silicio in cristalli trasparenti o biancastri, spesso geminati, dalla caratteristica frattura concoide o scheggiosa.

Serpentino ofite
Varietà di marmo a chiazze verdi, associazione di diversi idrosilicati magnesiaci e ferro-magnesiaci di colore verde con screziature.

Verde antico
Proveniente dai pressi di Larissa in Tessaglia, a Roma chiamata volgarmente verde antico, è la serpentina o oficalce di gran lunga più usata nell’antichità. Le cave di questo marmo sono state ininterrottamente attive dall’epoca di Adriano e, recentemente  riscoperte. Nel XVIII secolo, il  verde antico, per la gran richiesta, divenne così raro a Roma che, nella prima metà del secolo, se ne importarono alcune colonne da Solona in Dalmazia, tagliate, furono usate in varie chiese. Era il marmo prediletto da Federico II. Il suo aspetto è di color verde vivace con macchie di verde più scuro, macchie bianche e nere e talvolta rosse o rosate. In antico venne largamente usato nei palazzi imperiali.  Due colonne di questo tipo si conservano attualmente nella Cappella Corsini in San Giovanni in Laterano a Roma.
  

FONTI CONSULTATE

- Francesco Cirelli:  “IL REGNO DELLE DUE SICILIE DESCRITTO ED ILLUSTRATO” – Opera dedicata a S.M. Ferdinando II – Edito a Napoli da Pansini nel 1852 (aggiornato fino alla fine dell’Ottocento) – Parte curata da Gaetano Arcieri – estratta dalla sua “Monografia” su Castelluccio.

- Angelo Pitillo: “CASTELLUCCIO NELLA DIOCESI DI CASSANO NEI SECC.XVII E XVIII” .

- ARCHEOLOGIA ARTE E STORIA ALLE SORGENTI DEL LAO – Catalogo della mostra Castelluccio, un centro  ‘minore’ tra beni culturali e memoria storica” – a cura di Paola Bottini –  BGM  Matera 1988.  










G.P.   – maggio 2013

LA CHIESA DI SAN NICOLA DI MIRA A CASTELLUCCIO INFERIORE